Le meditazioni delle Statio Quaresimali guidate dal Vescovo Gianpiero
Cammino sui Vangeli dell'anno BI Domenica: le tentazioni
“Per lotta cristiana si intende il combattimento da sostenere nella propria vita tra l’impegno assunto nell’adesione a Gesù e al Vangelo e le forze contrarie presenti nella persona stessa, nelle strutture e nella cultura dominante. Questa lotta è stata sostenuta per primo da Gesù. Dopo di lui ogni altro discepolo è chiamato a sostenerla in prima persona senza esoneri o sconti” (da “il cammino spirituale. 4. Dinamica dell’atto di fede” di Giuseppe Sovernigo)
Guidami, luce gentile, in mezzo alle tenebre, guidami tu.
Buia è la notte e la mia casa è lontana: guidami tu.
Dirigi tu il mio cammino; di vedere lontano
non te lo chiedo – un solo passo sicuro mi basta.
In passato non pensavo così, né ti pregavo: guidami tu.
Amavo scegliere da solo la via; ma ora guidami tu.
Amavo la luce del giorno e senza timore
cedevo all’orgoglio – non ricordare, ti prego, il passato.
A lungo tu mi sei stato vicino;
posso dunque ripetere: guidami tu.
Fra acquitrini e paludi, fra crepacci e torrenti
finché la notte è trascorsa.
All’alba, quei volti di angeli torneranno a sorridere,
da me amati un tempo e poi purtroppo perduti.(Cardinale John Henry Newman)
Dal vangelo secondo Marco (Mc1,12-15)
2E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto 13e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. 14Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, 15e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». |
Il cuore della predicazione di Gesù è che “il regno di Dio si è avvicinato”: Dio ha mandato il suo Re Cristo-Messia (unto di Spirito Santo) per realizzare il suo regno nel mondo. Il Re Messia si è avvicinato per “prendere il potere”: è questa la “buona notizia”!
Ma per credere al Vangelo, per credere che questo avvento del regno di Dio è una buona notizia, bisogna convertirsi. Che significa? Diventare poveri, da ricchi che siamo!
Isaia 61,1: lo Spirito del Signore è su di me: mi ha consacrato con l’unzione per portare il lieto annunzio ai poveri. Matteo 5,2: Beati i poveri di spirito, di essi è il regno dei cieli!
Il cambiamento richiesto dalla conversione è passare dalla ricchezza alla povertà: solo così possiamo sentire l’annuncio dell’avvicinarsi del regno di Dio in Gesù come una buona notizia. Per i ricchi, infatti, è una pessima notizia: convertitevi, o rischiate di rimanere fuori dal regno!
Chi sono i ricchi?
- Quelli che sono troppo “visibili” (Mt 6: “hanno già ricevuto la loro ricompensa”)
- Quelli che non ripongono in Dio la loro fiducia, ma in sé stessi: “maledetto l’uomo che confida nell’uomo e pone nella sua carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore del Signore” (Geremia 17,5)
- Quelli che dimenticano che tutto ciò che hanno e che sono è un dono di Dio, un dono che Dio fa a loro perché lo condividano. Invece i ricchi pensano che il dono sia loro proprietà: o se lo sono dati da soli o Dio lo ha dato solo per loro stessi! Questa è la menzogna: hanno in “io” così smisurato che non vedono il dono, il Donatore e gli altri in vista dei quali il dono è dato (al centro di Mt 6 che parla di elemosina, preghiera e digiuno, c’è il Padre Nostro, dove tutto è dono di Dio. E’ il nostro antidoto contro la ricchezza)
Il Re Messia entra nel mondo, si fa “povero” e si circonda di “poveri” per realizzare il regno di Dio
Gesù condotto dallo Spirito Santo nel deserto
Il deserto lo sperimentiamo nella vita… perdiamo le sicurezze (specie quelle a cui attacchiamo il cuore: il cibo della pentola della cerne e delle cipolle di Egitto, anche se è cibo della schiavitù), perdiamo le relazioni, perdiamo la casa, finiamo nella precarietà…
tutto cambia quando comprendiamo che lo Spirito Santo ci ha condotto nel deserto perché Dio vuole realizzare dentro di me il suo Regno, perché mi vuole convertire e da ricco mi vuol far diventare povero. Finché sono ricco, finché non rinasco, non servo a Dio e alla causa del suo regno!
Ricorda l’ultima volta che hai sperimentato il deserto. Ti sei accorto che lo Spirito ti aveva condotto lì per convertirti e consolarti?
Le belve e gli angeli.. la tentazione di Satana.
Israele aveva sperimentato la tenerezza di Dio: il cibo della manna e delle quaglie, l’acqua scaturita dalla roccia, l’essere portato come su ali di aquila, la sicurezza dell’approdo nella terra promessa della libertà…. Ma nel deserto c’è l’esperienza dura dell’apparente non risposta e lontananza di Dio. Emergono le belve, emerge Satana: se tu sei davvero il Figlio di Dio…. In fondo la tentazione è una lotta/prova della fede.
Quali “belve” emergono nel tuo deserto? Hai sentito la tua fede messa alla prova? Gli angeli sono venuto a servirti?
Stava
Saper rimanere nel deserto per 40 giorni o per 40 anni. Accettare la dinamica dell’alternanza della presenza delle belve e degli angeli. E decidere di stare nella tentazione e nella prova. Nello stare si rafforza la fede, la speranza e la carità. Si rafforza l’essenziale: il sentire la presenza di Gesù Risorto e affidarti a Lui
Sai abitare i deserti della tua vita? Lì puoi crescere nella speranza (elpìs) e nella perseveranza (upomonè)
Ascolta il podcast della I Meditazione
II Domenica: la Trasfigurazione
Dal Vangelo secondo Marco (Mc 9,2-10)
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
La voce del Padre:
Questi è il Figlio mio, l’Amato come il figlio Isacco offerto in sacrificio (Gen22,2)
Ascoltatelo! Come il profeta come Mosè (Dt 18,15)
Gesù ha appena annunciato che a Gerusalemme lo aspetta la passione e la Croce. Ora mostra qual è la meta del suo cammino: la Resurrezione, la trasfigurazione del Figlio dell’Uomo che viene riempito dalla Luce del Padre che è lo Spirito Santo. Per sempre il Figlio dell’Uomo Risorto e la Luce del Padre abiteranno la comunità dei discepoli che ascoltano la sua Parola (la shekinah-dimora della Nube Luminosa vera “tenda” dei discepoli).
Il cammino battesimale del discepolo di Gesù e della Chiesa è un cammino di trasfigurazione: depore l’uomo vecchio (le vesti di pelle di Genesi 3) per farsi vestire delle vesti di Luce a somiglianza di Gesù (veste bianca del battesimo! La vesta dice l’identità nella Bibbia). La luce dello Spirito illumina e trasfigura il nostro cuore: da lì la luce si diffonde sul volto, sul corpo, sulle vesti. La pace e l’amore donati dallo Spirito al cuore umano “si vede” sul volto dei discepoli, sul loro modo di “muoversi nel corpo”, in ciò che dicono e in ciò che fanno.
Genesi 22: il Figlio Amato
1Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. 2Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo [o fallo salire? veha’alèhu] in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
3Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato. 4Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. 5Allora Abramo disse ai suoi servi: “Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi”. 6Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme. 7Isacco si rivolse al padre Abramo e disse: “Padre mio!”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”. Riprese: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. 8Abramo rispose: “Dio stesso si provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio!”. Proseguirono tutti e due insieme.
9Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò suo figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. 10Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. 11Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. 12L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito”. 13Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. 14Abramo chiamò quel luogo “Il Signore vede”; perciò oggi si dice: “Sul monte il Signore si fa vedere”.
In nessun caso il Libro del Levitico prescrive il sacrificio di vite umane. Anzi, nella sua condanna delle depravazioni dei Cananei, esso vieta esplicitamente di sacrificare la propria prole: “Non lascerai passare alcuno dei tuoi figli a Moloch e non profanerai il nome del tuo Dio.” (18:21), precetto ribadito in Deuteronomio 18:10: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco”. Il profeta Geremia riferisce le parole del Signore che parla contro “coloro che bruciano col fuoco i loro figli e le loro figlie, cosa che Io non ho comandato e neppure mi venne in mente” (Geremia 7:31 e parole simili anche in 19:4-5; 32:35). Rabbino Di Segni: La parola “offrilo” traduce il termine ebraico veha’alèhu, che significa in realtà “fallo salire”. La connessione fra salire e i sacrifici è ovvia: la fiamma del fuoco sale in alto. Rashì (Francia, 1040-1105), il massimo commentatore della Torà degli ultimi mille anni, interpreta il termine nel senso letterale, ossia che l’ordine divino è di far salire il ragazzo sul monte. Così scrive Rashì a commento di quel versetto: “Il Signore non disse ad Abramo ‘scannalo’, perché non era Suo desiderio farlo scannare bensì di farlo salire sul Monte”.
Non un vecchio e un bambino, ma due adulti che salgono sul monte. Isacco è d’accordo. Padre e figlio sono insieme, d’accordo nell’andare a cercare quel Dio in cui credono. “Dio stesso provvederà l’animale per il sacrificio”: Abramo non inganna il figlio mentendo (un padre non inganna!) ma vive con lui l’avventura e il rischio della fede.
Abramo alzò gli occhi e vide un ariete… Cosa Dio volesse realmente, lo si coglie nella realtà (non nelle paure, nelle ansie e nelle angosce che coltiviamo in noi stessi). La risposta era lì, ma non la vedevamo. C’è una conoscenza delle cose della vita che ci viene data dalla fede e dall’amore, e grazie a questo troviamo la risposta che cercavamo. “La paura bussò alla porta della nostra vita. Con timore e trepidazione, la fede si alzò da letto e andò ad aprire… ma non c’era nessuno!”
La prova della fede: non l’obbedienza ad un crudele comando divino (Sgozza tuo figlio che ami, così saprò che ami e temi più me!”) ma credere che Dio è amore… “Tutte le volte che Dio chiama, bisogna mettersi in viaggio. C’è sempre un luogo da lasciare. Non vi è discussione in Abramo, non chiede spiegazioni a Dio: ma come farai? Sei sicuro? Vuoi davvero questo? Questa è fede. Fede non è obbedire ad un comando, fede è credere che Dio mi ama. E’ ostinarsi, nonostante la vita, l’evidenza, il dolore che provo, nonostante nessun’altra garanzia umana, che comunque Tu sei con me e per me. E allora prendo mio figlio, mia moglie, la mia vita, il mio futuro, la mia felicità e la porto dove tu vuoi. Non temo di darteli… Dal punto di vista umano, psicologico e spirituale, è più facile credere ad un comando che credere ad un amore, che credere di essere amato. La nostra vita cambierà nel momento in cui saremo davvero certi di essere amati” (don Achille Tronconi)
In Gesù il sacrificio del Figlio si consuma. Ma “il centro” che sostiene Gesù è la fede nel Padre, nel suo amore, per cui la propria morte diventa il suo personale atto d’amore a Dio e ai fratelli, la sua risposta d’amore alla fedeltà del Padre. Gli antichi commentatori sottolineavano l’interpretazione cristologica del brano: il figlio unigenito e amato è Gesù, il monte Moria è il luogo della passione, la legna del sacrificio è la croce…
Solo in Gesù ci viene donata la forza della fede per vivere quella “passione d’amore” che ci trasfigura, che diventa il centro unificante della nostra esistenza
Ascolta il podcast della II Meditazione
III Domenica: la purificazione del Tempio
“Io sto alla porta e busso” (Ap 3)
Ma forse, Signore, non basta che Tu bussi:
la mia porta ha bisogno di essere sfondata dal gesto della tua Potenza!
Ti prego, Signore, sii forte con me!
So che la tua forza non è prepotenza, è Amore.
Serviti della tua Potenza e della tua Misericordia,
ma fa che la mia vita sia come arata dalla tua Presenza:
come un terreno ingrato che deve essere reso fertile;
sia sconvolta come un’acqua limacciosa che deve essere purificata;
come l’atmosfera piena di nebbia e di miasmi che ha bisogno di essere illimpidita da un uragano.
Se la mia vita non fosse sconvolta da Te, Cristo di Dio,
che redenzione sarebbe la mia?
Che resurrezione?
Sii forte con me!
Se aspetti che io sia docile, dovrai aspettare troppo! (Cardinale Anastasio Ballestrero)
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,13-25)
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.
E’ una giornata memorabile nel tempio di Gerusalemme! Tutti i Vangeli ne parlano. Giovanni pone l’episodio all’inizio, mentre gli altri evangeli lo pongono nel contesto dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme come Re Messia (a dorso di asino, che è la cavalcatura del re in tempo di pace).
Quindi il Re Messia, dopo essere entrato in città, entra nel tempio e lo purifica.
In Matteo Gesù compie tre segni: la cacciata dei venditori e dei cambiamonete dall’atrio dei gentili, perché il tempio sia casa di preghiera per tutti i popoli (Is 56,7) e non una spelonca di ladri (Ger 7,11)/ la guarigione dei ciechi e degli zoppi all’ingresso del tempio: infatti a loro era proibito entrarvi (2Sam 5,8: Quanto ai ciechi e agli zoppi sono in odio a David. Per questo dicono: il cieco e lo zoppo non entreranno nella casa); in questa maniera acnhe questi disabili guariti possono entrare al seguito di Gesù/ ai bambini (soggetti senza diritti) è consentito entrare nel tempio e acclamare pieni di gioia. Gesù giustifica questo fatto citando il salmo 8 (dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode); in Lc 19,39-40: se i discepoli tacciono grideranno le pietre!
In Giovanni Gesù spiega il suo gesto dicendo: “non fate della casa del Padre mio un mercato” e i discepoli, impauriti da ciò che Gesù ha fatto e consapevoli che del rischio che egli corre, ricordano il salmo 69: “lo zelo per la tua casa mi divorerà”. Gesù sta per essere divorato, come tanti profeti, a causa del suo zelo. Ma Gesù rivela che egli è il tempio, la presenza di Dio in mezzo agli uomini: gli uomini possono distruggere le pietre (il corpo), ma niente e nessuno può eliminare la presenza di Dio in mezzo agli uomini.
Nel cuore dell’uomo Dio abita come nel suo tempio, perché lì c’è lo Spirito e la presenza del Signore Risorto. La comunità cristiana, che è il corpo di Cristo Risorto, è a sua volta il tempio della presenza di Dio in mezzo agli uomini (cfr la Samaritana: “né su questo monte, né a Gerusalemme…)
- Vivo sempre in superficie o so scendere nel mio santuario interiore, dove il mio vero io è costantemente alla presenza del Signore Risorto?
- Se scendo nel profondo dell’abisso del mio cuore insieme al Signore, posso non avere paura. Se vi scendo da solo posso anche finire nella disperazione… Ho bisogno della preghiera, ne sono consapevole?
- Vivo la mia comunità cristiana come il luogo in cui incontro il Signore Risorto: nella Parola, nei sacramenti, nei fratelli?
Ma, ritorniamo al nostro castello e alle sue molte stanze. Non dovete immaginare queste stanze una dietro l’altra, come poste in fila, ma portare il vostro sguardo al centro, che è l’abitazione o il palazzo dove sta il Re; dovete far conto che sia un «palmetto» in cui, prima d’arrivare al frutto, si trova un fitta ricopertura di foglie che lo circondano da ogni parte. Così, qui, intorno a questa stanza, e anche al di sopra, ve ne sono molte altre, perché le cose dell’anima vanno sempre considerate con ampiezza, estensione e magnificenza, senza paura di esagerare, essendo la sua capacità superiore a ogni nostra immaginazione, e ogni parte di essa irradiata dal sole che ha sede in questo palazzo. È molto importante che un’anima di orazione, qualunque sia il grado da essa raggiunto, non sia rincantucciata e costretta in una sola stanza. La si lasci circolare per queste stanze, in alto, in basso, e ai lati, poiché Dio le ha conferito così gran nobiltà; non la si tiranneggi obbligandola a stare a lungo nello stesso posto, sia pure in quello della conoscenza di sé.
Capitemi bene, però: la conoscenza di sé stessi è tanto necessaria anche alle anime ammesse dal Signore nella sua stessa casa, che mai – per quanto elevate esse siano – devono trascurarla, né potrebbero farlo, anche volendolo, perché l’umiltà è come l’ape che fabbrica continuamente nell’alveare il miele, senza di che tutto sarebbe perduto. Ma, consideriamo anche che l’ape non tralascia di uscire e di volare per succhiare il nettare dei fiori. Così dev’essere dell’anima nella conoscenza di se stessa: mi creda, e prenda di tanto in tanto il volo per considerare la grandezza e la maestà del suo Dio. In ciò scoprirà la propria bassezza assai meglio che guardando in se stessa, e sarà più esente dagli animaletti immondi che entrano nelle prime stanze, cioè quelle della conoscenza di sé; anche se, ripeto, è grande misericordia di Dio che si applichi a questa conoscenza, tuttavia, come suol dirsi, il più val bene il meno. E, credetemi, con l’aiuto di Dio attueremo assai miglior virtù che rimanendo molto attaccate al nostro fango.
9. Non so se mi sono spiegata bene: questa conoscenza di noi stessi, infatti, è tanto importante che non vorrei vi fosse mai in ciò rilassatezza, anche se foste già elevate fino ai cieli; perché fino a quando saremo su questa terra non c’è cosa che ci sia più necessaria dell’umiltà. Pertanto, torno a dire che va bene, benissimo, cercar di entrare, prima, nella prima stanza a ciò preposta, anziché volare verso le altre, essendo questo il giusto cammino; e se possiamo camminare su un terreno piano e sicuro, perché volere ali per volare? Cerchiamo piuttosto il modo di avvantaggiarci sempre più in questa conoscenza. Ma, a mio parere, non arriveremo mai a conoscerci se non procureremo di conoscere Dio: la contemplazione della sua grandezza ci servirà per scoprire la nostra bassezza; la considerazione della sua purezza ci farà vedere la nostra sozzura; il pensiero della sua umiltà ci farà comprendere quanto siamo lontani dall’essere umili (il Castello interiore, S. Teresa di Avila: prime mansioni, capitolo II)
LA STANZA BUIA
Ore 17,00 di un pomeriggio qualsiasi all’interno della stanzetta colloqui di una sezione del carcere di Regina Coeli. Nonostante la primavera, continua a fare fresco e io e Carlo ci avviciniamo a quel che resta della stufetta elettrica saldata al muro (spariscono anche le stufe qualche volta!) divenuta oramai così familiare da poter essere considerata la materializzazione di quel calore che tutti cerchiamo come possiamo. Non dobbiamo dirci cose particolari, solo riprendere il filo di un discorso interrotto qualche giorno prima. “Ti sei ripreso dopo il colloquio?”. “Sì – dice Carlo – anche se certi argomenti… meglio non pensarci troppo”. “Non riesci proprio a non sentirti in colpa oltre misura per quello che è successo anni fa con papà?!” In fondo volevi solo dare una mano a mamma”. Ma Carlo non ce la fa proprio. Con gli occhi velati, dopo una eloquente pausa di silenzio, mi dice: “Scusa padre…meglio che torni in cella”. Così Carlo; e forse ognuno di noi quando viene toccato sul vivo di quella interiorità che contiene tante cose più o meno belle, più meno accettate. Mi piace il modo di descrivere l’interiorità che usò cinquecento anni fa Teresa d’Avila: una grande cosa (il famoso” castello”) con tante stanze. Proviamo a farci trascinare dal pensiero di Teresa avendo sullo sfondo i sentimenti di Carlo.
Ognuno di noi possiede una casa interiore piena di stanze, nessuna uguale all’altra: c’è la stanza dove si ricevono le visite, elegante e sobria, comoda e sempre, sempre pulita. C’è la stanza da letto dove coltiviamo i nostri pensieri intimi, dove siamo soli veramente anche se siamo sposati o viviamo in comunità. Poi c’è la cucina, il luogo dove ci nutriamo, dove l’anima prepara i pensieri consolanti che la fanno vivere decentemente, senza strafare. Quando qualcuno vuole entrare nella nostra casa interiore lo facciamo accomodare in salotto; se è proprio un amico lo possiamo anche portare in camera nostra o in cucina…ma solo se è un amico sincero: non si possono portare tutti nei luoghi più personali della casa! Attenzione però, qui viene il bello: in fondo al corridoio dell’anima, nell’angolo più dimenticato di ogni casa interiore esiste anche uno sgabuzzino, senza finestre che non mostriamo mai a nessuno, e che noi stessi non apriamo mai. Non solo non ci entriamo, ma cerchiamo di vivere come se non ci fosse; magari ci sforziamo anche di tenere pulita tutta la casa…ad esclusione di quel posto là. La stanza buia è tutto ciò che non vorremo, ma che inesorabilmente c’è; la stanza buia di Carlo è il ricordo del papà con cui ha un conto in sospeso. Eppure, il più delle volte, la stanza buia è l’angolo della casa che parla più di noi, e che oggi ci fa essere così come siamo nel bene e nel male. E se agli altri possiamo nasconderne l’esistenza il Signore non ci diviene realmente amico finché non lo facciamo entrare là, in quel piccolo metro quadro dall’anima davanti al quale ci vergogniamo e ci fermiamo attoniti, impotenti e tristi. C’è una pagina bellissima del vangelo di Luca in cui Gesù promette dalla croce il Cielo a quel ladrone pentito che la tradizione orientale chiama san Dismas: “Oggi sarai con me in Paradiso”. A Nessun altro Cristo promette tanto nel vangelo lucano, e tu ti aspetteresti che questa promessa così solenne fosse fatta a ben altro personaggio più meritevole di un ladro e in altre circostanze, magari più solenni o solari.
Invece no. Dal posto vergognoso della croce e ad una persona indegna di rispetto umano Gesù fa la promessa più bella che un uomo possa udire dalla bocca del suo Dio: “Oggi ti porto con me”. Così, dal posto più inaspettato e vergognoso che è la tua stanza buia interiore, Cristo vuole passare per far entrare la luce della Promessa. Se io oggi faccio della mia paura, del mio rancore, della mia ferita, il luogo dove il Signore fissa per me un appuntamento inatteso, allora tutto cambierebbe e la vita si rovescerebbe. L’amaro della vita, per grazia, può divenire dolce – direbbe san Francesco – e la stanza buia il luogo dell’Amicizia.
Se solo riuscissi a farlo capire a Carlo!